RITORNO IN MOZAMBICO
di Annalisa De Lucia
Lasciamo Joannesburg di primo mattino. L’aria è molto fredda, sembra autunno, ma la foschia presto scompare. Il tempo di prendere posto sul volo Joannesburg-Maputo e già la nebbia lascia il posto al sole. Il volo è breve. Non sono seduta vicino all’oblò, ma riesco a sporgermi e guardare in basso. Il Sudafrica ha centri abitati e campi coltivati a scacchiera. Il confine con il Mozambico è evidente: i campi coltivati la terra pianeggiante e desolata che trasmette una calma misteriosa, il fiume tortuoso con l’ampia ansa allargata dalle ultime inondazioni. Molte terre sono ancora coperte eppure non è la stagione delle piogge. Le precipitazioni continuano.
Guardo dall’oblò questa terra. Non sono eccitata, ho dimenticato l’entusiasmo della prima volta. Sono semplicemente felice. Felice di essere tornata. Riconosco la terra, rivedo la gente, mi riapproprio di spazi che ho già visitato. E’ un lieto ritorno fatto di ricordi, di persone che mi aspettano, di luoghi in cui voglio tornare a vivere.
A Maputo ci aspetta padre Leonardo per portarci alla missione. Attraversiamo la città sulla sua vecchia auto. Maputo è immensa e contraddittoria: grattacieli e capanne, mercedes e biciclette, uomini in cravatta e piedi scalzi per le strade. Un canale che segna in parallelo la strada accompagna la simmetria della terra. Piccoli orti e pezzi di discarica. Le donne zappano, i bambini recuperano barattoli e vecchie scarpe abbandonate.
La missione è stata costruita al centro di un villaggio. Lascio i miei bagagli, lascio la casa di mattoni, esco per le strade, tra gli odori originari e la polvere. Le donne ai lati della strada vendono banane, spille da balia carbone e noccioline tostate, sui banchi tenuti in piedi con lo spago, altre con le foglie di banane scacciano le mosche dal pesce essiccato. I bambini riempiono le bucce di cocco con la terra rossa, una donna è china a rimestare il cibo in un pentola di latta.. Il vicolo tra le capanne è stretto e irregolare, scorrono l’acqua, lo scarico delle latrine l’olio del motore della piccola officina meccanica.
Gli odori forti, le voci, le risate dei bambini, la terra tra le pieghe delle mie scarpe e il sole che a mezzogiorno brucia la pelle hanno per me un sapore naturale; lo percepisco come uno strano piacere reale, un’immagine fraterna.
Una jeep ci aspetta alla cooperativa di padre Prosperino. Sono le sette e la città è sveglia. Ci dirigiamo nei campi dei profughi dell’alluvione. Un dipendente della cooperativa è seduto nella parte esterna della jeep. Ci accompagna per tutto il viaggio; è armato, Maputo è una città pericolosa.
Lasciando la città, le strade diventano più desolate. Percorriamo tratti in terra battuta dove l’acqua non si è ancora ritirata. Gli stagni che sembrano addormentati avvolgono le poche costruzioni in pietra, trattengono i rami secchi degli alberi che hanno resistito alla forza delle piogge. Le capanne ricostruite sono disposte ordinatamente nella parte più alta della zona. Di fianco piccoli appezzamenti di terra permettono alla gente di coltivare la verdura e piantare i semi di manioca. Il miglio pestato e setacciato ricopre i teli colorati disposti a terra. Le stoffe appese tra un palo e l’altro accompagnano il vento e le buste piene di terra ed erba sono appoggiate sui tetti di lamiera per fissarli meglio alle capanne. Dove paglia e canne non sono ancora arrivate, il campo è occupato dalle tende militari. Questi rifugiati non torneranno più nella loro terra. Tutto è sceso a valle trascinato dalle acque; campi case e uomini senza sepoltura. Gli alberi trascinati dalla corrente con le radici fuori dalla terra e i rami nell’acqua sembrano essersi piegati per abbeverarsi.
Christina Augusta Maia è una donna anziana che vive in una di queste capanne. Mi stringe al mano non appena mi avvicino e mi sorride mostrando le gengive rosee senza denti. E’ una profuga, la pioggia le ha portato via tutto, la casa e due figli. Mi tiene le mani continua a sorridermi, mi indica la sua nuova capanna, adesso, dice è felice; C’è fango, paglia, canne incrociate e terra da seminare.
C’è un nuovo mercato sulla parte alta del campo, insieme alle tende dell’ECHO e dell’ACNUR, il comitato internazionale per i rifugiati. Si costruiscono le latrine con pezzi di stoffa e stracci scoloriti. E la scuola si fa sotto l’albero con un pezzo di lavagna fissato nella terra. C’è una macchina incastrata nella terra melmosa. Le ruote girano a vuoto nel fango.
Facciamo un giro largo cercando la strada asciutta in mezzo alla vegetazione alta.
Nelle zone più lontane dove né il governo né la cooperazione sono arrivati, la gente ha tagliato gli alberi per fissare le case e costruire le staccionate che delimitano i campi. Ma così senza alberi hanno perso anche l’ombra.
Attraversiamo i campi con la jeep. La disperazione è evidente, la precarietà mette disagio, eppure le donne danzano al nostro passaggio, sorridono, ci salutano, ci offrono i frutti.
Mi avvicino a un giovane donna che lava i panni vicino alla capanna. E’ timida, ha gli occhi bassi, risponde appena la mio saluto. Sbircio nella sua casa. Nella capanna di bambù c’è un tavolo di legno con un mazzo di fiori di plastica nel barattolo di latta.
Riprendiamo il viaggio lungo la strada prosciugata a tratti.. La terra è rossa come il sole che tramonta sull’oceano. La terra entra dai finestrini, la sento in bocca sulle labbra asciutte. Un uomo cammina elegantemente sulla strada con la sua giacca e la cravatta blu.
Nelle zone più povere si lavora la terra con la zappa.
Dicono i benpensanti:- Perché non usare l’aratro?
Per ogni aratro ci vuole un animale da tiro.
E per ogni animale da tiro, il cibo.
Sulla strada c’è sempre qualcuno che aspetta al sole un passaggio. Vicino una capanna un piccolo banco con banane e pesce essiccato da vendere ai passanti. Siamo i primi e forse gli ultimi della giornata.. Niente frutta da vendere, né miglio, né uova da comprare. La città dista
A mezzogiorno il sole scava con i raggi la pelle. Una donna zappa la terra arida vicino alle piantine di miglio ingiallito, un’altra attraversa il campo e si ripara dal sole con un portamonete.
Sulla strada per Nangololo
Lasciamo Pemba la città sull’oceano Indiano, preda delle multinazionali del turismo, lo splendido paesaggio esotico, il tramonto sul mare e le villette sulla spiaggia...i villaggi, le strade interrotte, le costruzioni abbandonate e l’aria che sembra appartenere a una civiltà sepolta e trascurata. Gli edifici bombardati non sono stati più ricostruiti. Convivono con le nuove abitazioni come un animale morto che rimane parte del branco finché non imputridisce definitivamente. Ci sono sbarre alle vetrine dei negozi, alle finestre delle case e degli uffici pubblici e i canali di scolo non ci fanno raggiungere i marciapiedi dalla strada.
La lascio volentieri Pemba, dopo aver comprato un po’ di pane per il viaggio. Il viaggio è faticoso, la strada è per pochi tratti asfaltata. C’è una donna anziana sulla strada che aspetta un passaggio, con la testa carica di pesi e il viso tatuato. Raddrizza la brocca d’argilla sulla testa con le mani sottili, le dita allungate e ossute. Un bambino porta un mucchio di pietre sulla testa avvolte in un panno colorato, sua madre che gli cammina a fianco ha il rossetto sulle labbra.. Il bambino ha in bocca una penna, a guardarlo bene è solo l’astuccio di una vecchia Bic.
Ci sono paletti a strisce bianche e rosse in mezzo ai campi e non lontani dalle case. E’ una zona da sminare . Le capre si arrampicano sui cumuli di terra rossa e dai secchi delle donne sulla strada cade l’acqua come gocce di sudore. Una donna con il pancione sta pilando con forza il miglio vicino la sua casa costruita nel letto secco del fiume. Ha una piccola ascia sistemata tra le pieghe del panno che le avvolge i capelli.
Non è la stagione delle piogge eppure piove a dirotto. Ci separano pochi chilometri dal villaggio di Nangololo, gli ultimi chilometri su per la montagna. La pioggia impregna la sabbia, la jeep slitta, è difficile mantenerne il controllo. Le ruote girano a vuoto man mano che aumenta la pendenza. Lasciamo la jeep per alleggerire il carico, mentre la pioggia cade più fitta. Raccogliamo erba per farne piccoli cespugli da mettere davanti alle ruote e impedire che slittino. Ad ogni passo cespugli di erba sotto le ruote per tutta la salita ritmicamente come stessimo insegnando loro a muovere i primi passi. La salita è ripidissima, ci sediamo sul cofano per dare un assetto maggiore alle ruote anteriori. Nangololo è a seicento metri. Nella vallata la foresta secolare circonda la montagna, nella luce sbiadita della pioggia.