APPUNTI DI UN VIAGGIO IN ALBANIA
di Rino Andriano
Era nelle mie intenzioni andare durante le vacanze natalizie in Albania anche se non sapevo come avvisare P. Sergio.
E sarebbe rimasto solo un desiderio, se P. Sergio non fosse venuto per un controllo alla macchina il 18 dicembre. Partiti da Bari il 21, siamo arrivati a Daiçi il giorno dopo nel pomeriggio. Nelle due settimane di permanenza sono stato ospitato dalle Suore Apostole del S. Cuore di Gesù, a circa
Le sorelle sono un segno della provvidenza di Dio per questo villaggio. Hanno adibito una loro stanza ad ambulatorio ed ogni giorno, insieme ad un medico albanese, accolgono e curano la gente bisognosa.
Molti sono i bambini che accorrono per farsi medicare da S. Rosangela o S. Ernesta che non mancano di riempirli di doni: vestiti o alimenti.
Tra loro sono stato come a casa e le ringrazio per la calorosa accoglienza che mi hanno riservato.
Della mia permanenza riporto gli appunti di diario di alcuni giorni.
Visita a Nënshat.
Il 23 dicembre con P. Sergio e don Ignazio partiamo da Daiçi per Hajmel e Nënshat. La strada, se così si può chiamare, è piena di fango e di fossi che solo un fuoristrada o un trattore possono superare; il percorso prevede anche l'attraversamento di due fiumi, quando naturalmente le piogge lo consentono.
Per la strada si incontrano molti bambini e adulti che pascolano animali: mucche, pecore, tacchini, maiali; i campi che sono stati restituiti ai proprietari sono generalmente coltivati a grano, che già comincia a spuntare colorando di verde le grandi vallate. Vicino al fiume, gruppi di anatre e oche felici sguazzano nell'acqua, sull'altra riva le donne lavano i panni. La gente dei villaggi, semplice e ospitale, vive sostanzialmente di agricoltura e pastorizia, non mancano comunque gli artigiani.
Arrivati a Hajmel, ci dirigiamo verso la scuola, dove in una stanza ha sede il Comune, per informare il Capo del Comune, affinché avvisi la gente, che il 25 dicembre avremmo celebrato una messa; naturalmente all'aperto poiché manca una chiesa.
Poi ci dirigiamo verso Nënshat, dove i Cappuccini hanno deciso di costruire il loro convento. Questa volta la strada è migliore: fatta dagli italiani durante il periodo fascista, è lastricata con pietre di varie forme e dimensioni. Lungo il percorso tutti i pastorelli che costeggiano la strada corrono incontro al Padre per salutarlo e far festa.
Arriviamo alla vecchia caserma che diventerà la nuova casa di P. Sergio; si trova su un terreno che un cristiano di Nënshat ha donato ai Cappuccini. E' ancora recintata con filo spinato e sui muri si leggono frasi inneggianti all'Albania e al suo popolo. Chiediamo ai muratori che stanno ristrutturando la casa che si affrettino ad approntare per il 2 gennaio la stanza più grande per porvi gli aiuti che arriveranno dall'Italia con il presepe itinerante.
Vicino alla casa su una bella collinetta sorge una antica canonica che diventerà la chiesa di Nënshat. Originalmente la canonica di due piani, è stata usata come deposito nel periodo comunista. Ora è un rudere di un solo piano che la gente di Nënshat, quando ha sentito che forse sarebbe venuto tra loro un sacerdote, ha coperto per metà con un tetto di canne, che ripara un poco dalla frequente pioggia. Per terra, la "chiesa" è piena di pietre usate come sedile dalla gente durante le messe. In realtà l'antica chiesa sorge su un'altra collina molto più in alto raggiungibile solo a piedi, e anche di questa sono rimasti solo i muri perimetrali.
Vicino alla chiesa abita una famiglia; la casa è composta da tre stanzette, una adibita a stalla, in un'altra vi è un telaio rudimentale e alcune foto di famiglia appese al muro, nell'ultima un caminetto e per terra stuoie e vecchie coperte che fanno da letto ai genitori e ai loro sei figli. Nelle case manca l'acqua, che viene attinta dai ruscelli, ma non manca l'ospitalità. Anche nelle situazioni più precarie è stato sempre difficile rinunciare a un caffè turco, al raki (grappa albanese) o all'invito di restare a pranzo, a cena o a dormire.
Vigilia di Natale
In mattinata cerco di riparare i tubi dello scaldabagno delle suore che mi hanno ospitato: erano stati invertiti i tubi dell'acqua calda e fredda. La mattina passa in attesa che si scarichi il serbatoio, non c'è nemmeno una chiave d'arresto dell'acqua per poter lavorare.
Dopo aver invertito i tubi purtroppo lo scaldabagni non dà segno di caricarsi e per quasi tutto il periodo che resterò lì non funzionerà mai visto che l'acqua, come anche la corrente elettrica, manca quasi sempre e una volta esaurito il piccolo serbatoio ci si arrangia con l'acqua raccolta nei contenitori.
Nel pomeriggio con Martino, un seminarista che fa' da interprete durante le messe, e con P. Sergio partiamo per Nënshat dove alle 23,30 avremmo celebrato la messa di Natale. Appena arrivati ci dirigiamo verso la casa di Antonio, uno dei responsabili laici della comunità cristiana, sicuri di trovare ospitalità.
Ci accoglie il figlio maggiore, Antonio è fuori per la morte di un parente. Bisogna dire che nei villaggi le famiglie vivono in una struttura patriarcale: i maschi di una famiglia con le rispettive mogli e figli vivono tutti insieme nella casa paterna. Ciò consente loro di avere una maggiore solidità economica visto che il frutto del lavoro di ognuno viene messo insieme per l'intera famiglia.
Siamo accolti in un salotto, le stanze sono pavimentate con tavole di legno e ricoperte con tappeti per isolarsi dal freddo; appena entrano in casa si tolgono le scarpe per non sporcare i tappeti, a noi viene detto di non preoccuparci e di tenere le scarpe. In attesa del capofamiglia ci sediamo a parlare con i parenti. Subito si informano della mia famiglia e della sua salute, e da tutti i loro atteggiamenti si coglie la gioia per la nostra presenza nella loro casa.
Poi arriva Antonio. E' anziano ed ha proprio l'aspetto di un patriarca, pacato nel parlare e ottimo moderatore dei figli nonostante la loro età, 37 e 34 anni. Dopo i saluti, continuiamo a parlare fino a quando ci viene servita la cena.
Le pietanze vengono messe al centro tavola e ognuno si serve con la propria forchetta. Si mangia un formaggio, olive, porri, verza cotta con aceto e sale, una specie di pizza di cipolla e pesce fritto. A tavola siamo noi e gli uomini della famiglia, le donne sono in cucina con i bambini. Questo accade per riguardo degli ospiti, in alcune case dei villaggi, dove sopravvivono antiche tradizioni.
Prima di iniziare a mangiare per ben due volte dopo aver riempito i bicchieri con raki o vino il capofamiglia saluta i commensali con la frase "Kjofté lavdue Jezu Krishzi" (sia lodato Gesù Cristo) brindando con i bicchieri di tutti. Questo e altri saluti augurali sono ripetuti durante tutta la cena ogni volta che il capofamiglia beve. Dietro loro continua insistenza, dopo aver abbondantemente mangiato di quanto ci era stato offerto ci viene servito un'abbondante porzione di riso ciascuno, non ne mangiamo perché ormai sazi.
Verso le 23.00 partiamo per andare in chiesa. Per la gente del luogo sarà la seconda notte di Natale celebrata in chiesa, (hanno avuto una messa anche l'anno scorso), dopo tanti anni di silenzio imposto dal comunismo. Lungo la strada buia e spazzata da un vento freddo gruppetti di famiglie salgono a piedi su per la collina per venire alla messa. L'atmosfera è davvero suggestiva: sembra davvero
Arrivati in cima ci accoglie una bellissima sorpresa preparata dai cristiani. Noi che non sapevamo come illuminare la chiesa di notte, la troviamo non solo completamente illuminata da due grosse lampade. ma adorna con una bella croce fatta di luci posta sulla porta principale.
All'interno la chiesa è già stracolma di gente seduta per terra che, in attesa della messa, recita il santo rosario cantandolo; un tavolino fa da altare e un'immagine del Cristo viene appesa alla parete centrale. La gente che non riesce ad entrare tra cui io, partecipa alla S. Messa o restando fuori al vento e osservando dalla finestra la celebrazione, o in piedi nella parte scoperta in fondo alla chiesa.
Quella notte il Signore è nato nella povertà, accolto con vera gioia da gente semplice, si è fatto pane per noi. Sembrava di assistere a una messa celebrata in S. Damiano ai tempi di S. Francesco con i minores di Assisi o ancora alla famosa notte di natale a Greccio quando Francesco volle vedere con i suoi occhi il Signore che nasceva nella povertà di una grotta. Dopo la messa faccio amicizia con qualche ragazzo che parlava un po' di italiano e tutti mi ringraziano per la mia presenza e mi comunicano il desiderio di molti di loro di imparare l'italiano. E' stato davvero un bel Natale. Grazie, Signore.
Arrivano gli aiuti
Il 2 gennaio alle 5,30 partiamo da Daiçi per Durazzo per andare a prendere il camion con gli aiutidestinato a Nënshat che accompagnava il presepe itinerante. Arriviamo puntuali con la nave alle 7,30, ma i camion per via della burocrazia albanese escono solo alle 11,30.
Partiamo da Durazzo seguiti dal camion. Prima di arrivare a Nënshat sulla strada ci aspetta il Capo del Comune con alcuni poliziotti per scortare gli aiuti. Temevamo che il camion con il suo rimorchio avrebbe avuto difficoltà per arrivare a Nënshat visto che negli ultimi
Grazie a Dio verso le 16,45 il camion arriva sano e salvo alla casa dei cappuccini di Nënshat. Mentre i poliziotti controllano all'ingresso la gente che era accorsa numerosa, con i responsabili della chiesa, scarichiamo il camion sistemando tutto nel magazzino fatto preparare da P. Sergio.
Finiamo di scaricare verso le 21.00 e torniamo a Daiçi a dormire, dopo aver declinato l'invito a rimanere con i responsabili a vegliare affinché nessuno rubi nella notte.
Il giorno dopoarrivati a Nënshat, vediamo che sul terrazzo della casa tutti gli indumenti sono stati divisi in 380 mucchietti uguali , uno per ogni famiglia del villaggio. Per tutta la notte i responsabili della chiesa hanno lavorato per impedire che qualcuno avesse da ridire sulla distribuzione.
Infatti in Albania è difficile portare aiuti: se la distribuzione non è fatta equamente, nascono facilmente gelosie, litigi e si rischia di mandare tutto all'aria con un assalto ai magazzini. Per fortuna, grazie al lavoro meticoloso dei responsabili albanesi, la distribuzione procederà con ordine per tutta la giornata.
Il capo della chiesa con l'elenco delle famiglie alla mano chiama ogni capofamiglia che, entrato nel recinto, si reca a prendere la sua parte di beni. Ad ogni famiglia viene così distribuito il sacco di indumenti preparato, un cartone di pasta, uno di succhi di frutta, pelati, riso, farina, zucchero, sale, biscotti, scatolame e quanto altro è stato donato loro. La gente piena di gioia e di gratitudine, avuta la propria parte torna a casa con ordine.
"Vieni, mio figlio sta male!"
Nel pomeriggio, mentre procede la distribuzione, un giovane si avvicina a P. Sergio e, tramite un interprete, lo invita a recarsi a casa sua perché il figlio piccolo sta male e lui teme che stia per morire. Cosa chiede? Niente, solo che P. Sergio benedica il piccolo e reciti per lui una preghiera.
La cosa lascia me e P. Sergio un po' sbigottiti; ammiriamo la fede di quell'uomo, ma gli chiediamo se non sia meglio che, dopo la preghiera, trasportiamo il piccolo all'ospedale. Il giovane, come se non capisse che volevamo accompagnarlo noi all'ospedale, dice di non avere mezzi per il trasporto e rinnova l'invito alla preghiera.
Ci rechiamo allora presso la casa, troviamo il piccolo di circa 5 anni nel letto, recitiamo con la famiglia una preghiera e, dopo averli convinti con insistenza della nostra disponibilità ad accompagnarli, lo trasportiamo con i genitori all'ospedale di Scutari distante circa
Riporto questo episodio come esempio della fede di questa gente. Chiunque di noi con un figlio malato, sapendo che P. Sergio aveva l'unica macchina del villaggio, avrebbe subito chiesto di accompagnarlo all'ospedale e magari di pregare per lui, quell'uomo e la sua famiglia invece chiedevano solo una preghiera affidandosi totalmente al Signore, forse perché, non essendo abituati alla gratuità fraterna, non si aspettavano da noi solidarietà.
Questo è solo un esempio della fede di questo popolo, non posso esprimere la gioia che mi veniva trasmessa dagli anziani per la ritrovata libertà di credere in Dio e di poterlo professare.
Ci è difficile immaginare le sofferenze che per cinquant'anni ha dovuto sopportare questo popolo. L'Albania è stata un grande campo di concentramento, circondata per tutto il suo confine da due barriere di filo elettrico, isolata fisicamente e culturalmente dal resto del mondo.
Si viveva nella miseria e in clima di diffidenza totale. Si rischiava di morire per una parola detta in confidenza a un amico o ad un parente: bastava nominare un cantante italiano, esprimere un segno di religiosità o il desiderio di conoscere altri Paesi per essere torturati, condannati ad anni di lavoro forzato o il più delle volte uccisi. Anche in famiglia regnava la diffidenza e il silenzio. Spesso i bambini a loro insaputa venivano usati a scuola come spie dei propri genitori. Bastava sapere da loro che il giorno di Natale avevano mangiato qualcosa in più per imprigionare i genitori come nemici del popolo.
Intanto le nuove generazioni nate nel comunismo venivano formate nell'ignoranza e nell'isolamento culturale, convincendole che in Albania si stava molto meglio che nel resto del mondo e che fuori i nemici erano tanti e tali che era meglio non muoversi. Si insegnava a servire il Partito, che "era dalla parte del popolo", e a difenderlo con ogni mezzo dai nemici esterni ed interni. In questo clima si lavorava fino a quindici ore al giorno nelle campagne o nelle strutture dello Stato, senza peraltro poter godere dei frutti del proprio lavoro.
I più perseguitati sono stati proprio i cattolici, che hanno avuto sempre i posti di lavoro più umili e sottomessi, a cui è stato violentemente impedito di professare la propria fede. Centinaia sono i martiri cristiani uccisi o torturati dal comunismo nel solo nord dell'Albania.
Ma il clima di terrore non è bastato nè a convincere le nuove generazioni delle frottole che venivano raccontate loro, nè a piegare gli anziani che, imperterriti, hanno continuato di nascosto a celebrare in casa i battesimi o i matrimoni o a dare ai propri figli nomi cristiani e non pagani come chiedeva il comunismo. Anche se spesso per i motivi suddetti non veniva neanche detto ai propri figli di essere stati battezzati, se non in età adulta.
Ora si può immaginare la gioia di questo popolo soffocato nello spirito, che finalmente può parlare di Dio ai propri figli, può insegnare loro ad amare colui che per primo ci ha amati, può partecipare apertamente ai sacramenti e non desidera altro se non avere un sacerdote e una chiesa.
Rendiamo grazie a Dio con il popolo albanese per la ritrovata libertà e lo preghiamo affinché lo accompagni nella costruzione di una vera democrazia.